La storia dell'olio Bellapietra

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Un racconto che parte dai primi anni del '900


Tramandato di padre in figlia

C'era una volta

Echi d'infanzia risuonano tra gli ulivi di Camemi e Bellapietra, silenziosi e severi testimoni del passare del tempo e del mutare dei tempi. Le loro chiome cangianti, una volta accarezzate dai pettini che intrappolavano tra i rebbi le olive, vengono ora scompigliate da agevolatori meccanici e nuovi attrezzi studiati per semplificare e velocizzare le operazioni di raccolta.
Sono cambiati i tempi, e anche i modi, da quando mio nonno paterno acquistò un terreno in territorio di Ribera, in contrada Camemi, da don Tristano Alvarez de Toledo, ribaldo spagnolo, duca di Bivona, di certo epigono dei fondatori dell’ispanico borgo nella zona sud-occidentale della Sicilia, probabilmente uno degli ultimi a disfarsi, in epoca tarda, dei restanti brandelli di feudi da decenni ormai smembrati.
E parte di un feudo era anche il terreno di Bellapietra, in territorio di Sciacca, i cui proprietari erano, invece, di discendenza locale, e l’uliveto è arrivato fino a noi dal lato materno della famiglia.
Epoche, insomma, in cui in campagna si arrivava a cavallo o in carrozza, coi vestiti sbiancati da spessi strati di polvere e le scarpe inzaccherate; dopodiché, fu il tempo del treno e, infine, le polverose trazzere divennero strade e, con l’avvento dell’automobile, raggiungere le due contrade diventò molto più semplice e veloce.
Per noi bambini andare in campagna era una festa: scorrazzavamo tra gli alberi, raccoglievamo la frutta e la mangiavamo all’ombra delle chiome delle piante, rincorrevamo lucertole e uccellini e, a tempo debito, attivavamo le narici per annusare l’odore della legna di ulivo che bruciava nel forno da cui, dopo qualche tempo, sarebbero usciti biscotti, muffuletta (o pane cunzato, con un’espressione che ha avuto maggiore fortuna), pizze (o tabische, come si chiamano a Sciacca) e squisitezze varie.
Se si era d’inverno, si raccoglievano le arance - straordinarie le Washington Navel di Ribera che, in seguito, sarebbero state classificate come prodotto DOP - mentre in primavera, ci divertivamo a raccogliere le fragoline - attualmente presidio Slowfood - e poi ci arrampicavamo sugli alberi a raccogliere i gelsi. L’estate portava susine, pesche e albicocche succulentissime, fichi profumati, uva e frinire di cicale. In autunno arrivava il momento dei melograni e delle piccole banane prodotte dalle piante di Camemi.
E in autunno cominciava la raccolta delle olive. Allora, gli ulivi di Camemi erano circa settecento e quelli di Bellapietra un centinaio. Col passare del tempo, il numero è stato incrementato e, oggi, Camemi ospita circa 2700 piante, mentre a Bellapietra il numero è di circa 300.


Le cose si complicano

Fino a una ventina di anni fa, la raccolta delle olive - così come ogni altro avvenimento legato alla vita dei campi - rappresentava per me un momento ludico: era piacevole andare a passeggiare all’ombra degli ulivi, scansando le reti stese sul terreno, e, di tanto in tanto, prendere una "manuzza" e pettinare le chiome delle piante per intrappolarne i frutti; così come era un rito andare in frantoio ad aspettare che uscisse il primo olio, riempirsi le narici del profumo delizioso e penetrante di cui è intrisa l’aria degli oleifici e, magari, assaggiare il prodotto delle proprie olive su una fetta di pane caldo.
Allora lavoravo nel campo dell’editoria: traducevo romanzi e saggi, e mia passione e ossessione erano le parole, non le olive. Poi, dopo molti anni passati a studiare i testi per tentare di “dire quasi la stessa cosa” - secondo l’espressione utilizzata da Umberto Eco per definire in breve il lavoro del traduttore - ho dovuto sollevare la testa dai libri e cominciare a guardare l’uliveto con occhi diversi. Mi è toccato, insomma, mettere a fuoco ciò che, fino a quel momento, era soltanto il gradevole sfondo di una vita incentrata su altre cose.
Il fatto è che la morte di mio padre, nel 2006, indusse me e le mie sorelle a rimescolare le carte e a ridistribuirle: i vuoti erano grandi e bisognava colmarli e, delle tre, la più versata a occuparsi di campi e olio ero probabilmente io. In un primo tempo, continuai a mischiare olive e parole; poi, nonostante la mia grande passione per i libri e le traduzioni, le olive e l’olio diventarono sempre più ingombranti. Gli ulivi richiedevano cure e, quindi, cominciai a frequentare corsi sulla gestione dell’uliveto e sulla potatura; e poi mi resi conto di quanto fosse interessante il mondo dell’olio, e di quanto ci fosse da imparare.
La prima mossa fu di seguire un corso di idoneità fisiologica all’assaggio dell’olio, passo indispensabile per poi diventare assaggiatore, qualifica che si ottiene continuando ad assaggiare - e assaporare - decine e decine di oli.
E, così, di ulivo in ulivo e di assaggio in assaggio, l’azienda agricola ha cominciato ad assorbire tutto il mio tempo e le mie energie.
Ho imparato molte cose, nel corso degli anni, e mi piace pensare che le conoscenze acquisite e l’amore che ho dedicato alle mie piante siano stati assorbiti, insieme ai profumi e ai sentori tipici di questo angolo di Sicilia, dall’olio che di una delle contrade in cui sono ubicati gli uliveti - Bellapietra - porta il nome.